Porque el escritor
argentino siempre se las arregla para decir algo nuevo, y continúa influyendo
en generaciones de autores fantásticos y extraños.
Borges: leggere e rileggere
Perché lo scrittore
argentino riesce sempre a dire qualcosa di nuovo, e continua a influenzare
generazioni di autori fantastici e weird.
Di Vanni Santoni
Si dice che prima o poi si entri in un’età della vita in cui
le riletture superano le letture, e mentre sento che mi sto avvicinando a quel
momento mi scopro a rileggere, tra gli altri, Borges. Di per sé non ci sarebbe
nulla di strano, essendo l’argentino uno dei maggiori autori del Novecento, ma
il fatto è che ricordo bene come, una quindicina d’anni fa, quando la mia
produzione letteraria si limitava a qualche racconto su una rivista
autoprodotta che proprio Jorge Luis Borges aveva tra i suoi numi, dissi ai miei
amici e compagni di strada che era necessario “lasciarsi dietro Borges”.
Sparata da autor giovane in osteria, certo. Sensata, al
massimo, se letta nel senso di superare le prime influenze e cercarne di nuove.
Ma comunque una sciocchezza. Ne è prova che sono qui adesso coi miei Borges –
anzi: coi miei nuovi Borges, dato che non ho potuto astenermi dal ricomprare
tutti i libri, che già avevo, nelle nuove scintillanti edizioni Adelphi. Né è
prova, anzi, che sono qui a scrivere di lui; che credo valga la pena fare
questa cosa ovvia, invitare ancora una volta tutti alla lettura di Borges;
ricordarne l’influenza e l’attualità.
Per parlare in modo adeguato del signore di tutto ciò che è
ricorsivo e intertestuale, è opportuno avvalersi delle sue modalità.
Parafraserò allora le parole del suo collega Márquez (il quale peraltro, qua in
Italia, prende in prestito la medesima voce, quella di Ilide Carmignani,
traduttrice di entrambi oltre che di Bolaño, colui che più di altri è riuscito
a raccogliere l’eredità dell’argentino): avendo oggi deciso di parlare di
Borges, ricorderò quel pomeriggio remoto in cui mio padre mi aveva portato a
conoscere la Biblioteca di Babele. Il calco mi viene naturale, perché così come
il prodigio del ghiaccio nel romanzo di Márquez apre alla possibilità di tutti
gli altri prodigi che si susseguiranno a Macondo, allo stesso modo la magia di
quel racconto – anzi, di quel luogo, perché davvero quando mio padre me lo fece
leggere fu come essere portato lì – aprì la mia mente di bambino non solo agli
altri prodigi di Borges, ma alla prodigiosità della letteratura in sé.
Scrisse il fondatore del cyberpunk William Gibson che quando
lesse per la prima volta un racconto di Borges – nel suo caso fu Tlön, Uqbar,
Orbis Tertius, contenuto nella medesima raccolta della Biblioteca di Babele,
Finzioni, ebbe la sensazione che gli fosse stato installato un upgrade nel
sistema operativo. Così fu per me, su due piani. Uno puramente estetico: i
libri, che fin lì rispettavo anzitutto perché mi era stato insegnato a farlo,
d’improvviso si trasformarono in qualcosa che andava rispettato perché era
meraviglioso, e potente. L’altro, filosofico, se non metafisico. Come scrisse
Saramago, con Borges "la letteratura si stacca dalla realtà per meglio
rivelare i suoi invisibili misteri", e qualcosa di simile parve d’intuire
anche a me: dopo la lettura di Borges – di un solo racconto di Borges! –, non
solo i libri sembravano aver mutato di natura ai miei occhi infantili, ma anche
la realtà stessa aveva preso una grana differente, più chiara e allo stesso
tempo più misteriosa, come se mi fosse stata svelata una sua parte segreta che
tuttavia conduceva a un ulteriore e vertiginoso sistema di enigmi.
Non ebbi troppo tempo per pensarci sopra, perché il nuovo
sistema operativo mi chiese subito il riavvio per installarmi la “library” –
letteralmente: nella biblioteca del mio paese, andando alla ricerca di altri
libri di Borges, scovai la collana che curò per la Franco Maria Ricci Editore e
scoprii così Le morti concentriche di Jack London, Lo specchio che fugge di
Giovanni Papini, Bartleby lo scrivano di Herman Melville, Il convitato delle
ultime feste di Villers de L’Isle-Adam, L’avvoltoio di Franz Kafka, il
Micromegas di Voltaire, L’ospite tigre di Song-Ling P’u, La casa dei desideri
di Kipling, La porta nel muro di H.G. Wells, e molti altri. Scoprii insomma un
altro canone, una letteratura che scorreva parallela e sotterranea rispetto a
quella che conoscevo (in alcuni casi coinvolgendo i medesimi autori, come se
essi stessi custodissero un oscuro yin accanto al loro più lucente e pubblico
yang), ma nessuno di essi mi diede la sensazione di avermi installato molto più
di un semplice software.
Era alta letteratura, ma non portava con sé
l’effetto-Borges. C’era un’eccezione, e quell’eccezione era ovviamente Kafka,
ma anche lì mancava qualcosa. Mancava per eccesso, perché Kafka sta sopra
Borges e sopra tutti nel Novecento essendo l’unico ad aver creato, da solo,
qualcosa di paragonabile alla mitologia di un’intera cultura (che è cosa ben
diversa anche dal più sopraffino worldbuilding – chi volesse approfondire,
parta da K. di Roberto Calasso), ma proprio per questo è sprovvisto di accessi
agili e custodisce i propri enigmi gelosissimamente. È ostile verso di sé,
figurarsi verso di noi. Borges no. Borges – fin troppo facile, a questo punto,
ricordare che di mestiere faceva il bibliotecario – ti prende e ti porta con sé
nel labirinto. Mette in chiaro che potresti restare sbigottito, ma ti apre le
porte e si offre di guidarti, restando stupito o perplesso o sgomento assieme a
te.
E Borges, infatti, piace, o almeno parla, a tutti: parla a
Gibson come parlò al me bambino, parla a chi ama le storie realistiche e a chi
preferisce quelle fantastiche, a chi adora i racconti e a chi normalmente legge
solo romanzi, ai conservatori e ai rivoluzionari, agli iconoclasti e ai
classicisti. Per quanto si tratti del principe dei mistagoghi, Borges produce
infatti una letteratura che non è né difficile né enigmatica: può citare il
Talmud o i commentarî sufi (e farlo rivolgendosi al lettore come se anch’egli
li conoscesse a menadito) ma non si pone mai sopra al lettore, e ci riesce
perché, nonostante la sua preoccupazione profonda resti la metafisica, non
dimentica mai che il suo compito è anzitutto quello di raccontare storie.
Per dirla con le sue parole, “ho sempre fatto del mio meglio
– non so con quanto successo – per scrivere storie dirette. Non oso dire che
siano semplici; non esiste da nessuna parte al mondo una singola pagina (o una
singola parola) che lo è, dato che ogni cosa implica l’universo, il cui tratto
più ovvio è la complessità. Ma mi preme chiarire che non sono, né sono mai stato,
un predicatore di parabole, un favolista o uno scrittore impegnato. Non aspiro
a essere Esopo. Le mie storie, come quelle delle Mille e una notte, intendono
intrattenere o commuovere il lettore, non persuaderlo di alcunché”.
Come se non bastasse, Borges è anche accessibile da un punto
di vista puramente pratico, dato che non c’è da farsi troppe domande circa il
punto da cui cominciare ad affrontarlo: i suoi massimi risultati sono
senz’altro le raccolte Finzioni e L’Aleph, e si può cominciare da una qualunque
delle due – anzi: da uno qualunque dei racconti che le compongono – senza stare
a chiedersi quale sia la migliore (difficile dirlo: se propendo lievemente per
Finzioni è solo perché fu quella con cui lo scoprii), poi leggere l’altra,
dopodiché passare all’antologia che sta subito sotto di esse, la tarda Il libro
di sabbia, e solo dopo dedicarsi, eventualmente, al resto.
Lo hanno fatto non solo i postmoderni ma anche quei nuovi
alfieri del fantastico – China Miéville, Jeff VanderMeer, lo stesso Neil Gaiman
– che oggi fanno a gara a inserire riferimenti borgesiani nelle loro opere,
dimostrando così che la sua influenza non si è limitata a riportare il
fantastico nel letterario, ma anche il letterario nel fantastico – e se oggi si
parla molto di weird o sconcertante, con particolare attenzione al modo in cui
la cosiddetta literary fiction sente sempre più il bisogno di sconfinare nei
generi e cercare, dopo la sbornia di realismo di Otto e Novecento, nuovi
approcci alla metafisica, è difficile, nel farlo, schivare l’ombra
dell’argentino. Anche il più forte candidato al titolo di “scrittore per il
ventunesimo secolo”, Roberto Bolaño, trasuda Borges: ne usa i dispositivi per
innervare di intertestualità e ulteriore spessore filosofico il proprio
cortázarismo d’origine, e dai racconti di Borges porta nei suoi romanzi quello
strano tono di coinvolta perplessità, da persona intrappolata in un rebus che
sospetta essere senza risposta, che completa la cifra perturbante della sua
prosa.
Borges è, dunque, così influente perché ha fatto, per di più
in modo intelligibile per chiunque, tutte quelle cose che stanno oggi fra le
prime preoccupazioni di chi intende realizzare un testo letterario. Un’analisi
anche superficiale dei materiali da lui usati ci mostra come abbia portato
anzitempo a fusione “alto” e “basso”, mischiando dispositivi che un tempo si
sarebbero detti pulp (racconti di detective, avventure storiche, enigmi arcani,
ambientazioni mirabolanti) con una intertestualità elevatissima e altrettanto
elevate elucubrazioni filosofiche – si pensi solo al fatto che Il giardino dei
sentieri che si biforcano, leggibile anche come un saggio erudito sul tempo,
sia uscito per la prima volta in traduzione sulla Ellery Queen Mystery
Magazine.
Ma non solo. Borges ha anche narrativizzato la metafisica;
ha rotto i confini tra discorso e metadiscorso (e quindi tra testo narrativo e
critica); ha nobilitato il fantastico (da vedere l’intervista a Arbasino in cui
gli ricorda che la spina dorsale del canone – Odissea, Eneide, Divina Commedia,
molti dei lavori di Shakespeare, Ariosto – è ben lungi dall’essere realistica);
ci ha ricordato che tutto è rappresentazione (e quindi finzione); ci ha
mostrato che nulla è nuovo e quindi tutto è a suo modo citazione (ecco un altro
paradosso borgesiano: insegnare che nulla è nuovo attraverso i testi più
originali della sua epoca); ha infine creato le basi di una letteratura che si
confronta con la più moderna delle preoccupazioni: quella di un mondo che si
scopre infinito (in tutte le direzioni: dall’infinitamente grande del cosmo
all’infinitamente piccolo delle particelle) e che non ha più un Dio a cui
appoggiarsi per controllare tale vertigine. Con Borges, la letteratura si fa
carico dei compiti che furono della dottrina, e ci insegna a non aver paura di
quest’infinità (né di maya, ovvero della natura fondamentalmente illusoria di
ogni cosa), rendendo possibile anche a un bambino il guardarci dentro e il
riconoscere nelle sue molte forme – biblioteca, Aleph, Zohar, labirinto, libro
di sabbia, tempo, fuga di specchi o di doppi – i semi del meraviglioso.
Fuente: Esquire – Italia
- 7/02/2019
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