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sábado, 16 de febrero de 2019

Borges: Leer y releer



Porque el escritor argentino siempre se las arregla para decir algo nuevo, y continúa influyendo en generaciones de autores fantásticos y extraños.

Borges: leggere e rileggere

Perché lo scrittore argentino riesce sempre a dire qualcosa di nuovo, e continua a influenzare generazioni di autori fantastici e weird.

Di Vanni Santoni            
               
Si dice che prima o poi si entri in un’età della vita in cui le riletture superano le letture, e mentre sento che mi sto avvicinando a quel momento mi scopro a rileggere, tra gli altri, Borges. Di per sé non ci sarebbe nulla di strano, essendo l’argentino uno dei maggiori autori del Novecento, ma il fatto è che ricordo bene come, una quindicina d’anni fa, quando la mia produzione letteraria si limitava a qualche racconto su una rivista autoprodotta che proprio Jorge Luis Borges aveva tra i suoi numi, dissi ai miei amici e compagni di strada che era necessario “lasciarsi dietro Borges”.

Sparata da autor giovane in osteria, certo. Sensata, al massimo, se letta nel senso di superare le prime influenze e cercarne di nuove. Ma comunque una sciocchezza. Ne è prova che sono qui adesso coi miei Borges – anzi: coi miei nuovi Borges, dato che non ho potuto astenermi dal ricomprare tutti i libri, che già avevo, nelle nuove scintillanti edizioni Adelphi. Né è prova, anzi, che sono qui a scrivere di lui; che credo valga la pena fare questa cosa ovvia, invitare ancora una volta tutti alla lettura di Borges; ricordarne l’influenza e l’attualità.
               

Per parlare in modo adeguato del signore di tutto ciò che è ricorsivo e intertestuale, è opportuno avvalersi delle sue modalità. Parafraserò allora le parole del suo collega Márquez (il quale peraltro, qua in Italia, prende in prestito la medesima voce, quella di Ilide Carmignani, traduttrice di entrambi oltre che di Bolaño, colui che più di altri è riuscito a raccogliere l’eredità dell’argentino): avendo oggi deciso di parlare di Borges, ricorderò quel pomeriggio remoto in cui mio padre mi aveva portato a conoscere la Biblioteca di Babele. Il calco mi viene naturale, perché così come il prodigio del ghiaccio nel romanzo di Márquez apre alla possibilità di tutti gli altri prodigi che si susseguiranno a Macondo, allo stesso modo la magia di quel racconto – anzi, di quel luogo, perché davvero quando mio padre me lo fece leggere fu come essere portato lì – aprì la mia mente di bambino non solo agli altri prodigi di Borges, ma alla prodigiosità della letteratura in sé.

Scrisse il fondatore del cyberpunk William Gibson che quando lesse per la prima volta un racconto di Borges – nel suo caso fu Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, contenuto nella medesima raccolta della Biblioteca di Babele, Finzioni, ebbe la sensazione che gli fosse stato installato un upgrade nel sistema operativo. Così fu per me, su due piani. Uno puramente estetico: i libri, che fin lì rispettavo anzitutto perché mi era stato insegnato a farlo, d’improvviso si trasformarono in qualcosa che andava rispettato perché era meraviglioso, e potente. L’altro, filosofico, se non metafisico. Come scrisse Saramago, con Borges "la letteratura si stacca dalla realtà per meglio rivelare i suoi invisibili misteri", e qualcosa di simile parve d’intuire anche a me: dopo la lettura di Borges – di un solo racconto di Borges! –, non solo i libri sembravano aver mutato di natura ai miei occhi infantili, ma anche la realtà stessa aveva preso una grana differente, più chiara e allo stesso tempo più misteriosa, come se mi fosse stata svelata una sua parte segreta che tuttavia conduceva a un ulteriore e vertiginoso sistema di enigmi.

Non ebbi troppo tempo per pensarci sopra, perché il nuovo sistema operativo mi chiese subito il riavvio per installarmi la “library” – letteralmente: nella biblioteca del mio paese, andando alla ricerca di altri libri di Borges, scovai la collana che curò per la Franco Maria Ricci Editore e scoprii così Le morti concentriche di Jack London, Lo specchio che fugge di Giovanni Papini, Bartleby lo scrivano di Herman Melville, Il convitato delle ultime feste di Villers de L’Isle-Adam, L’avvoltoio di Franz Kafka, il Micromegas di Voltaire, L’ospite tigre di Song-Ling P’u, La casa dei desideri di Kipling, La porta nel muro di H.G. Wells, e molti altri. Scoprii insomma un altro canone, una letteratura che scorreva parallela e sotterranea rispetto a quella che conoscevo (in alcuni casi coinvolgendo i medesimi autori, come se essi stessi custodissero un oscuro yin accanto al loro più lucente e pubblico yang), ma nessuno di essi mi diede la sensazione di avermi installato molto più di un semplice software.

Era alta letteratura, ma non portava con sé l’effetto-Borges. C’era un’eccezione, e quell’eccezione era ovviamente Kafka, ma anche lì mancava qualcosa. Mancava per eccesso, perché Kafka sta sopra Borges e sopra tutti nel Novecento essendo l’unico ad aver creato, da solo, qualcosa di paragonabile alla mitologia di un’intera cultura (che è cosa ben diversa anche dal più sopraffino worldbuilding – chi volesse approfondire, parta da K. di Roberto Calasso), ma proprio per questo è sprovvisto di accessi agili e custodisce i propri enigmi gelosissimamente. È ostile verso di sé, figurarsi verso di noi. Borges no. Borges – fin troppo facile, a questo punto, ricordare che di mestiere faceva il bibliotecario – ti prende e ti porta con sé nel labirinto. Mette in chiaro che potresti restare sbigottito, ma ti apre le porte e si offre di guidarti, restando stupito o perplesso o sgomento assieme a te.

E Borges, infatti, piace, o almeno parla, a tutti: parla a Gibson come parlò al me bambino, parla a chi ama le storie realistiche e a chi preferisce quelle fantastiche, a chi adora i racconti e a chi normalmente legge solo romanzi, ai conservatori e ai rivoluzionari, agli iconoclasti e ai classicisti. Per quanto si tratti del principe dei mistagoghi, Borges produce infatti una letteratura che non è né difficile né enigmatica: può citare il Talmud o i commentarî sufi (e farlo rivolgendosi al lettore come se anch’egli li conoscesse a menadito) ma non si pone mai sopra al lettore, e ci riesce perché, nonostante la sua preoccupazione profonda resti la metafisica, non dimentica mai che il suo compito è anzitutto quello di raccontare storie.

Per dirla con le sue parole, “ho sempre fatto del mio meglio – non so con quanto successo – per scrivere storie dirette. Non oso dire che siano semplici; non esiste da nessuna parte al mondo una singola pagina (o una singola parola) che lo è, dato che ogni cosa implica l’universo, il cui tratto più ovvio è la complessità. Ma mi preme chiarire che non sono, né sono mai stato, un predicatore di parabole, un favolista o uno scrittore impegnato. Non aspiro a essere Esopo. Le mie storie, come quelle delle Mille e una notte, intendono intrattenere o commuovere il lettore, non persuaderlo di alcunché”.
               

Come se non bastasse, Borges è anche accessibile da un punto di vista puramente pratico, dato che non c’è da farsi troppe domande circa il punto da cui cominciare ad affrontarlo: i suoi massimi risultati sono senz’altro le raccolte Finzioni e L’Aleph, e si può cominciare da una qualunque delle due – anzi: da uno qualunque dei racconti che le compongono – senza stare a chiedersi quale sia la migliore (difficile dirlo: se propendo lievemente per Finzioni è solo perché fu quella con cui lo scoprii), poi leggere l’altra, dopodiché passare all’antologia che sta subito sotto di esse, la tarda Il libro di sabbia, e solo dopo dedicarsi, eventualmente, al resto.

Lo hanno fatto non solo i postmoderni ma anche quei nuovi alfieri del fantastico – China Miéville, Jeff VanderMeer, lo stesso Neil Gaiman – che oggi fanno a gara a inserire riferimenti borgesiani nelle loro opere, dimostrando così che la sua influenza non si è limitata a riportare il fantastico nel letterario, ma anche il letterario nel fantastico – e se oggi si parla molto di weird o sconcertante, con particolare attenzione al modo in cui la cosiddetta literary fiction sente sempre più il bisogno di sconfinare nei generi e cercare, dopo la sbornia di realismo di Otto e Novecento, nuovi approcci alla metafisica, è difficile, nel farlo, schivare l’ombra dell’argentino. Anche il più forte candidato al titolo di “scrittore per il ventunesimo secolo”, Roberto Bolaño, trasuda Borges: ne usa i dispositivi per innervare di intertestualità e ulteriore spessore filosofico il proprio cortázarismo d’origine, e dai racconti di Borges porta nei suoi romanzi quello strano tono di coinvolta perplessità, da persona intrappolata in un rebus che sospetta essere senza risposta, che completa la cifra perturbante della sua prosa.


Borges è, dunque, così influente perché ha fatto, per di più in modo intelligibile per chiunque, tutte quelle cose che stanno oggi fra le prime preoccupazioni di chi intende realizzare un testo letterario. Un’analisi anche superficiale dei materiali da lui usati ci mostra come abbia portato anzitempo a fusione “alto” e “basso”, mischiando dispositivi che un tempo si sarebbero detti pulp (racconti di detective, avventure storiche, enigmi arcani, ambientazioni mirabolanti) con una intertestualità elevatissima e altrettanto elevate elucubrazioni filosofiche – si pensi solo al fatto che Il giardino dei sentieri che si biforcano, leggibile anche come un saggio erudito sul tempo, sia uscito per la prima volta in traduzione sulla Ellery Queen Mystery Magazine.

Ma non solo. Borges ha anche narrativizzato la metafisica; ha rotto i confini tra discorso e metadiscorso (e quindi tra testo narrativo e critica); ha nobilitato il fantastico (da vedere l’intervista a Arbasino in cui gli ricorda che la spina dorsale del canone – Odissea, Eneide, Divina Commedia, molti dei lavori di Shakespeare, Ariosto – è ben lungi dall’essere realistica); ci ha ricordato che tutto è rappresentazione (e quindi finzione); ci ha mostrato che nulla è nuovo e quindi tutto è a suo modo citazione (ecco un altro paradosso borgesiano: insegnare che nulla è nuovo attraverso i testi più originali della sua epoca); ha infine creato le basi di una letteratura che si confronta con la più moderna delle preoccupazioni: quella di un mondo che si scopre infinito (in tutte le direzioni: dall’infinitamente grande del cosmo all’infinitamente piccolo delle particelle) e che non ha più un Dio a cui appoggiarsi per controllare tale vertigine. Con Borges, la letteratura si fa carico dei compiti che furono della dottrina, e ci insegna a non aver paura di quest’infinità (né di maya, ovvero della natura fondamentalmente illusoria di ogni cosa), rendendo possibile anche a un bambino il guardarci dentro e il riconoscere nelle sue molte forme – biblioteca, Aleph, Zohar, labirinto, libro di sabbia, tempo, fuga di specchi o di doppi – i semi del meraviglioso.

Fuente: Esquire – Italia  -  7/02/2019

domingo, 26 de agosto de 2018

Documento: Fausta Leoni entrevista a J.L.Borges para la RAI -1984




Muerte, escritura, lectura, amor, amistad, karma, ceguera "Empecé a perder la vista en el momento en que empecé a ver ... era como una especie de niebla que gradualmente se extiende como la imagen de Goethe 'Todo lo que estaba cerca se está alejando, refiriéndose al crepúsculo. Me pasó a mí, las cosas se fueron poco a poco, sin un momento patético, fue como un lento crepúsculo, un crepúsculo que duró 84 años ... fue como alejarse lentamente de la realidad, un declive lento, digamos bastante agradable, sin duda algo incómodo, ya que la ceguera también es una forma de soledad, una forma de cautiverio ". con permiso del periodista y escritor Fausta Leoni

Intervista a Jorge Luis Borges
La morte, lo scrivere, il leggere, l'amore, l'amicizia, il karma, la cecità "Ho incominciato a perdere la vista nel momento stesso in cui ho cominciato a vedere...è stata come una specie di nebbia che si è estesa a poco a poco come l'immagine di Goethe 'Tutto ciò che era vicino si allontana', riferendosi al crepuscolo. A me è successo così, le cose si sono allontanate a poco a poco, senza un momento patetico, è stato come un lento crepuscolo, un crepuscolo che è durato 84 anni...è stato come allontanarsi lentamente dalla realtà, un lento declino, diciamo anche abbastanza gradevole. Certo una cosa scomoda pochè la cecità è anche una forma di solitudine, una forma di prigionia" con autorizzazione della giornalista e scrittrice Fausta Leoni

Fuebte: You Tube

sábado, 2 de diciembre de 2017

Borges, il “teologo ateo”



 
Il cardinale Gianfranco Ravasi analizza il percorso letterario dello scrittore argentino evidenziandone la vena religiosa già intravista da Leonardo Sciascia

MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA
TRENTO

Nel 1965 l’allora professor Jorge Mario Bergoglio, 29 anni, insegnava lettere nel Colegio de la Immaculata Concepciòn di Santa Fe, un’importante città portuale argentina posta alla confluenza tra il Rio Salado e il Rio Paranà, a nord-ovest della capitale. Un giorno quel docente – che gli allievi avevano soprannominato «carucha» (faccia da bambino) per via del suo aspetto molto giovanile – ebbe l’idea di fare un esperimento didattico invitando a tenere un ciclo di lezioni agli studenti nientemeno che il celebre scrittore argentino Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899-Ginevra 1986), il quale accolse, non senza esitazione, la proposta di quel gesuita a lui sconosciuto. L’esperienza si rivelò talmente intensa che Borges rimase a Santa Fe per un’intera settimana per spiegare ai ragazzi la tecnica della stesura di un racconto e nello stesso anno l’editore argentino Maktub pubblicava i loro lavori con il titolo “Racconti originali” e prefazione di Borges. «Altri menino vanto delle parole che hanno scritto; il mio orgoglio sta in quelle che ho letto», sarà una delle sue massime successive.

A raccontare i particolari di questo incontro è il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia sacra, in un volume che giunge in libreria per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna. Il motivo è presto detto: ben prima di aver visto la foto che ritraeva il giovane Bergoglio con lo scrittore – mostratagli direttamente da Papa Francesco – Ravasi confessa di aver provato curiosità per il famoso scrittore che sbrigativamente definiva se stesso come agnostico, ma che in realtà era apparso per tutta la vita attratto dai temi teologici e in particolare dai testi sacri. Di qui la scelta di una ricerca più approfondita e sistematica proprio sulla filigrana religiosa che si intuisce dalle (vastissime) pagine borgesiane per raggiungere il Borges «teologo ateo», secondo l’espressione di un altro scrittore, a lui simpatetico, Leonardo Sciascia. 

Il risultato, come scrive l’autore, vuole essere «soltanto uno sguardo essenziale ed emblematico, destinato non agli specialisti, ma a chi ha una conoscenza limitata di questo grande scrittore che non ebbe mai il Nobel e che ha costituito, invece, uno dei punti di riferimento più originali della cultura del suo tempo». E’ un percorso libero, non accademico (non un’esegesi critica, bensì «un viaggio tra sabbie mobili») che costituisce piuttosto un invito per avviare una conoscenza più diretta delle opere di Borges, la cui vocazione alla scrittura viene definita «quasi sacerdotale».

Scorrendo le pagine, all’interno di un panorama letterario ed esistenziale di vaste proporzioni, si viene condotti per mano da monsignor Ravasi – vero lettore appassionato – lungo le strade percorse dallo scrittore argentino: è un cammino fra storia e mito, «una parabola che intreccia l’universo esterno e l’io personale», un mondo dove le frontiere sono sempre labili e «non c’è mai una cortina di ferro tra verità e finzione, tra veglia e sonno, tra realtà e immaginazione, tra razionalità e sentimento, tra essenzialità e ramificazione, tra concreto e astratto, fra teologia e letteratura fantastica, tra icasticità anglosassone ed enfasi barocca …». Fino al paradosso supremo: «La vita è troppo povera per non essere anche immortale».

Un primato indiscusso fu assegnato da Borges proprio alla Bibbia, come rivelerà in un’intervista a María Esther Vázquez: «Devo ricordare mia nonna (Fanny Haslam Arnett, inglese e anglicana, ndr) che conosceva a memoria la Bibbia, in modo che io possa dire di essere entrato nella letteratura attraverso la via dello Spirito Santo».
In una conferenza tenuta ad Harvard nel 1969 lo scrittore riconduceva ad un trittico le opere fondamentali per l’umanità: l’Iliade, l’Odissea e i Vangeli («Credo che la storia di Cristo non potrebbe essere narrata meglio»).

Se il linguaggio poetico è analogo a quello sacro, Ravasi considera del tutto legittimo un interrogativo circa la sua «fede». E sono tante le espressioni che il cardinale rinviene nell’opera - come quella battuta dell’Aleph (1949) per la quale «morire per una religione è più semplice che viverla con pienezza» - tanto che conclude: «È indiscutibile che la Bibbia abbia offerto a Borges una specie di lessico tematico, simbolico, metaforico, archetipo e persino stilistico-retorico».

Dal libro di Giobbe – con ogni probabilità il suo preferito – all’Ecclesiaste: i libri biblici, come pure la Divina Commedia di Dante, sono compagni di viaggio nelle esplorazioni esistenziali dello scrittore fino al crepuscolo della vita quando scriverà i versi del «Cristo in croce», datandoli Kyoto 1984: versi di alta tensione spirituale, sottolinea il cardinale, ampiamente citati quando si vuole definire il suo rapporto con quel Cristo che non ha mai incontrato pienamente, ma la cui umanità ha costituito per lui una luce.

«Borges non aveva assolutamente “l’asprezza feroce” dell’ateo, ma la sua era una ricerca certamente implicita ma forse più intensa di quella di molti credenti pallidi e incolori». Anzi, con la familiarità del biblista, Ravasi lo accosta (anche per via della cecità che l’aveva colpito da anziano) al veggente Balaam definito come «un uomo dall’occhio chiuso (shetum)», mentre l’antica versione della Bibbia aveva letto «perfetto (shettam)»: proprio perché chiuso lo sguardo di questo profeta laico era capace di penetrare la realtà e coglierne il suo significato più profondo. E’ proprio «questa la sfida di Borges che non poteva non scontrarsi, tra le sabbie e le oscurità, con la roccia e la luce del trascendente, dell’eterno e dell’assoluto».

Fuente : La Stampa


sábado, 1 de abril de 2017

Manuale di zoologia fantastica di Maurizio Quarello




 

Maurizio Quarello illustra il bestiario di J. Luis Borges con 30 disegni che sono diventati pop up originali e unici. La pop up maker è Luigia Giovannangelo. Il video è stato realizzato da Michele Rocchetti.

J. L. Borges, nel prologo al "Manuale di zoologia fantastica" scrive: "Un bambino, lo portano per la prima volta al giardino zoologico. Questo bambino sarà chiunque di noi o, inversamente, noi siamo stati questo bambino e ce ne siamo dimenticati. Nel giardino, in quel terribile giardino, il bambino vede animali viventi che mai aveva visto: vede giaguari, avvoltoi, bisonti, e più strano ancora, giraffe."
Ricordo che da bambino era proprio la voliera degli avvoltoi a affascinarmi di più. Fascino e repulsione. Restavo a osservare quelle strane creature simili a "Arpie maschio" col corpo d'aquila e la testolina calva di uomini vecchi (banchieri, senatori, alti funzionari europei?). Finché il fetore di carne andata a male che aleggiava lì attorno, oppure la mamma, non mi facevano allontanare.
Dunque per me questo è un ritorno allo zoo, in questo caso fantastico, ma anche un ritorno all'amato "Manuale" dopo una trentina d'anni. Avrò avuto forse dieci-undici anni quando rimasi così affascinato da questo libro e dalle creature descritte che decisi di illustrarlo tutto e disegnai gli ottantadue mostri di Borges su un quaderno a quadretti, uno per pagina.
Quel quaderno è andato perso in uno dei tanti traslochi, ma l'amore per il "Manuale" e il fascino per le creature fantastiche e mostruose è rimasto e s'è concretizzato in questa serie di trenta tavole. Tavole che ho voluto diventassero pop-up per provare a dar vita a animali che non sono mai vissuti.
Maurizio Quarello

Fuente : You Tube