sábado, 2 de diciembre de 2017

Borges, il “teologo ateo”



 
Il cardinale Gianfranco Ravasi analizza il percorso letterario dello scrittore argentino evidenziandone la vena religiosa già intravista da Leonardo Sciascia

MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA
TRENTO

Nel 1965 l’allora professor Jorge Mario Bergoglio, 29 anni, insegnava lettere nel Colegio de la Immaculata Concepciòn di Santa Fe, un’importante città portuale argentina posta alla confluenza tra il Rio Salado e il Rio Paranà, a nord-ovest della capitale. Un giorno quel docente – che gli allievi avevano soprannominato «carucha» (faccia da bambino) per via del suo aspetto molto giovanile – ebbe l’idea di fare un esperimento didattico invitando a tenere un ciclo di lezioni agli studenti nientemeno che il celebre scrittore argentino Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899-Ginevra 1986), il quale accolse, non senza esitazione, la proposta di quel gesuita a lui sconosciuto. L’esperienza si rivelò talmente intensa che Borges rimase a Santa Fe per un’intera settimana per spiegare ai ragazzi la tecnica della stesura di un racconto e nello stesso anno l’editore argentino Maktub pubblicava i loro lavori con il titolo “Racconti originali” e prefazione di Borges. «Altri menino vanto delle parole che hanno scritto; il mio orgoglio sta in quelle che ho letto», sarà una delle sue massime successive.

A raccontare i particolari di questo incontro è il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia sacra, in un volume che giunge in libreria per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna. Il motivo è presto detto: ben prima di aver visto la foto che ritraeva il giovane Bergoglio con lo scrittore – mostratagli direttamente da Papa Francesco – Ravasi confessa di aver provato curiosità per il famoso scrittore che sbrigativamente definiva se stesso come agnostico, ma che in realtà era apparso per tutta la vita attratto dai temi teologici e in particolare dai testi sacri. Di qui la scelta di una ricerca più approfondita e sistematica proprio sulla filigrana religiosa che si intuisce dalle (vastissime) pagine borgesiane per raggiungere il Borges «teologo ateo», secondo l’espressione di un altro scrittore, a lui simpatetico, Leonardo Sciascia. 

Il risultato, come scrive l’autore, vuole essere «soltanto uno sguardo essenziale ed emblematico, destinato non agli specialisti, ma a chi ha una conoscenza limitata di questo grande scrittore che non ebbe mai il Nobel e che ha costituito, invece, uno dei punti di riferimento più originali della cultura del suo tempo». E’ un percorso libero, non accademico (non un’esegesi critica, bensì «un viaggio tra sabbie mobili») che costituisce piuttosto un invito per avviare una conoscenza più diretta delle opere di Borges, la cui vocazione alla scrittura viene definita «quasi sacerdotale».

Scorrendo le pagine, all’interno di un panorama letterario ed esistenziale di vaste proporzioni, si viene condotti per mano da monsignor Ravasi – vero lettore appassionato – lungo le strade percorse dallo scrittore argentino: è un cammino fra storia e mito, «una parabola che intreccia l’universo esterno e l’io personale», un mondo dove le frontiere sono sempre labili e «non c’è mai una cortina di ferro tra verità e finzione, tra veglia e sonno, tra realtà e immaginazione, tra razionalità e sentimento, tra essenzialità e ramificazione, tra concreto e astratto, fra teologia e letteratura fantastica, tra icasticità anglosassone ed enfasi barocca …». Fino al paradosso supremo: «La vita è troppo povera per non essere anche immortale».

Un primato indiscusso fu assegnato da Borges proprio alla Bibbia, come rivelerà in un’intervista a María Esther Vázquez: «Devo ricordare mia nonna (Fanny Haslam Arnett, inglese e anglicana, ndr) che conosceva a memoria la Bibbia, in modo che io possa dire di essere entrato nella letteratura attraverso la via dello Spirito Santo».
In una conferenza tenuta ad Harvard nel 1969 lo scrittore riconduceva ad un trittico le opere fondamentali per l’umanità: l’Iliade, l’Odissea e i Vangeli («Credo che la storia di Cristo non potrebbe essere narrata meglio»).

Se il linguaggio poetico è analogo a quello sacro, Ravasi considera del tutto legittimo un interrogativo circa la sua «fede». E sono tante le espressioni che il cardinale rinviene nell’opera - come quella battuta dell’Aleph (1949) per la quale «morire per una religione è più semplice che viverla con pienezza» - tanto che conclude: «È indiscutibile che la Bibbia abbia offerto a Borges una specie di lessico tematico, simbolico, metaforico, archetipo e persino stilistico-retorico».

Dal libro di Giobbe – con ogni probabilità il suo preferito – all’Ecclesiaste: i libri biblici, come pure la Divina Commedia di Dante, sono compagni di viaggio nelle esplorazioni esistenziali dello scrittore fino al crepuscolo della vita quando scriverà i versi del «Cristo in croce», datandoli Kyoto 1984: versi di alta tensione spirituale, sottolinea il cardinale, ampiamente citati quando si vuole definire il suo rapporto con quel Cristo che non ha mai incontrato pienamente, ma la cui umanità ha costituito per lui una luce.

«Borges non aveva assolutamente “l’asprezza feroce” dell’ateo, ma la sua era una ricerca certamente implicita ma forse più intensa di quella di molti credenti pallidi e incolori». Anzi, con la familiarità del biblista, Ravasi lo accosta (anche per via della cecità che l’aveva colpito da anziano) al veggente Balaam definito come «un uomo dall’occhio chiuso (shetum)», mentre l’antica versione della Bibbia aveva letto «perfetto (shettam)»: proprio perché chiuso lo sguardo di questo profeta laico era capace di penetrare la realtà e coglierne il suo significato più profondo. E’ proprio «questa la sfida di Borges che non poteva non scontrarsi, tra le sabbie e le oscurità, con la roccia e la luce del trascendente, dell’eterno e dell’assoluto».

Fuente : La Stampa


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